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“Gabbie”, il nuovo corto di Gianni Cardillo

Gianni Cardillo, 46 anni, siciliano, è il regista di “Gabbie”, in lizza per la vittoria del David di Donatello 2014 sezione cortometraggi . Conosciamolo più da vicino con questa intervista.

Finora dove ha trovato i protagonisti per le sue storie?

«Prevalentemente in strada, nella vita reale, partendo da spunti che mi sono stati dati da persone reali, senza però mai raccontare storie vere. Partendo dalla verità, ma raccontando storie che possono essere verosimili, nel senso che non cedo al biografismo e nemmeno all’autobiografismo, non mi piace raccontare cose che mi sono realmente successe. Parto, a volte, da tematiche che mi interessano per il mio vissuto, per la mia vita professionale, però poi racconto storie che spero possano avere il carattere dell’universalità.»

In fase di sceneggiatura, le è mai capitato di cambiare idea su come procedere?

«Praticamente sempre, nel senso che personalmente parto da un’idea, una storia, degli spunti, poi, man mano che scrivo, lascio che siano i personaggi a chiedermi dove vogliono andare. Quindi, quasi sempre, nel 90% dei casi, mi succede che dall’idea iniziale ci siano poi modifiche, anche sostanziali, rispetto alla storia.»

C’è un corto di sua realizzazione che offrirebbe come biglietto da visita per presentarsi alle case di produzione?

«”Gabbie”, l’ultimo, con cui sto partecipando alla selezione dei David. Ma anche il mio primo e al momento unico lungometraggio, “Ristabanna”, realizzato con svariati problemi produttivi ma di cui sono abbastanza soddisfatto.»

Qual è la fase lavorativa che la impegna maggiormente?

«Teoricamente la scrittura, perché è quella più complessa, più lunga, che richiede un periodo di gestazione più ampio. Praticamente la fase più impegnativa, perché è anche la più faticosa e più frustrante, è quella della ricerca dei produttori. In Italia c’è il cattivo costume che le produzioni, se non ti conoscono direttamente, non leggono, non rispondono al telefono, non rispondono alle mail, non ti fissano appuntamenti. La cosa più difficile e più frustrante è proprio questa.
In questo momento sto portando avanti il progetto di “Gabbie”, ma sto anche puntando all’estero perché mi sono trovato, in particolare in due paesi, cioè Spagna e Messico, a lavorare con produttori accoglienti, che ascoltano le idee, ne discutono, rispondono. Cosa che in Italia non succede.»

Tecniche digitali e cortometraggio: che rapporto c’è?

«Secondo me ottimo. Credo che i giovani, soprattutto quelli che sono già nati nell’era digitale, e che magari al momento sono ancora troppo piccoli per pensare di fare cortometraggi, sicuramente sono avvantaggiati perché, nascendo appunto nell’era digitale, hanno un modo di pensare e di vedere diverso da chi, come me, è nato e cresciuto in un’era in cui il digitale ancora non era così sviluppato. Quindi oggi, con quella che si può definire “democrazia del digitale”, chiunque abbia un cellulare di ultima generazione e un computerino può realizzare un cortometraggio. Questo, sicuramente, da una parte può generare un’inflazione, nel senso che non sempre le buone idee o i buoni propositi corrispondono a qualità; dall’altra, però, può far si che chiunque, veramente, possa realizzare e vedere realizzate le proprie idee, se ne ha. Quindi credo che il rapporto sia ottimo, perché, volendo, si può fare un cortometraggio a costo zero, cosa che fino a qualche anno fa non era pensabile.»

Come sceglie il cast?

«Mi baso sulla collaborazione con dei professionisti, con dei casting appunto. Con loro parlo del modo in cui io vedo i personaggi e quindi le caratteristiche che gli eventuali attori dovrebbero avere e da lì si procede in maniera molto professionale con le selezioni: in base alle fotografie, in base ai curriculum e poi, pian piano, si arriva ai provini veri e propri. Quindi in maniera molto tradizionale.»

Secondo lei il corto è ancora uno strumento di promozione per un regista emergente?

«Secondo me sì, parzialmente. Dovremmo discutere sull’ “ancora”, nel senso che non so se realmente lo sia mai stato al 100%. Mi spiego. Chiaramente è un modo per farsi conoscere e per mettere alla prova le proprie capacità e far vedere, ad un eventuale produttore, cosa sa fare con la macchina da presa, come sa dirigere gli attori, come sa dirigere un set, come sa scrivere una storia. E quindi, da questo punto di vista, sicuramente è un biglietto da visita e lo è ancora. Però, contemporaneamente, ho visto molti registi che hanno fatto cortometraggi stupendi e poi, invece, sono naufragati quando hanno avuto a disposizione un budget per fare un lungometraggio. La gestione di un set, degli attori e del budget è radicalmente diversa tra un corto e un lungo. Non sempre la capacità di gestione di un corto, poi, corrisponde alla capacità di gestire un lungo. Quindi da una parte si, è un buon biglietto da visita, dall’altra non è detto che chi sa girare un buon corto sappia girare un buon lungo.
Personalmente, nasco come sceneggiatore. Ho lavorato come sceneggiatore per tantissimi anni prima di decidere di passare alla regia, e devo dire che anche in questo ruolo mi sono trovato nella situazione in cui ho scritto dei corti per giovani registi, che li hanno girati e diretti bene, e poi, quando è capitato di dover passare al lungo, erano completamente smarriti. Quindi la risposta è non lo so, dipende.»

Si può fare un paragone tra cortometraggio e lungometraggio e racconto breve e romanzo?

«Si, si può fare, ed è esattamente ciò di cui stavo parlando prima: ci sono grandissimi autori di racconti brevi che a volte non si sono neanche mai misurati col romanzo, perché non è il loro terreno specifico, così come autori di romanzi che non sanno approcciare i racconti brevi, non li sanno scrivere, non fanno per loro. Sono delle strutture narrative molto diverse. Quindi si, il paragone si può fare, assolutamente.»

È possibile, spinti dalla sola passione, realizzare un corto di successo?

«Realizzare un corto sì, per i motivi che dicevo prima. Realizzare un corto di successo, onestamente, non lo so perché, poi, il successo dipende da tanti fattori… Sicuramente la passione è un motore fondamentale, perché se non c’è la passione non c’è l’energia per poter fare, per poterci credere. Poi, che la passione basti per arrivare al successo, questo sinceramente non lo so e, devo dire, non lo credo. Secondo me ci vuole altro. Ci vuole, a parte la fortuna, una grande tenacia, una grande capacità di lavoro, di approfondimento, conoscenza di sé e dei mezzi narrativi. E poi ci vuole anche, per tornare al discorso dei produttori, la possibilità di entrare nei canali giusti per poter realizzare le proprie idee.»

Quanto denaro è necessario per poter realizzare un cortometraggio?

«Grazie alla tecnologia e alla “democrazia digitale”, oggi un cortometraggio si può realizzare con 300 euro oppure con 100mila euro. Dipende cosa si vuole fare.»