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“Drops”, regia di Emanuela Mascherini
Emanuela Mascherini è al David, nella sezione corti. “Drops”, questo il titolo della sua opera, non passerà certo inosservato. Facciamo un giro nel suo universo artistico grazie a questa intervista.
Cominciamo subito con la domanda di presentazione. Chi è …?
Mi dicono che sono un’attrice, scrittrice, regista.
Di sicuro sono diplomata al Centro sperimentale di cinematografia come attrice e alla New York Film Academy di New York come regista. Nel mio percorso c’è stabilmente il lavoro di attrice e parallelamente quello di scrittrice e regista.
In genere ho la necessità di raccontare delle storie, creo un contenitore per la mia ricerca e scelgo il prodotto che sarà più efficace per veicolare quei contenuti.
Un critico cinematografico, Giovanni Bogani, in un’intervista mi ha definito “una nomade dell’arte”. Ecco, forse è l’espressione che più mi rappresenta.
Tre domande da appassionato: qual è il suo regista preferito e il film/cortometraggio che non smetterebbe mai di rivedere? Perché?
Ce ne sono tanti e faccio davvero fatica a citarne uno e a non citarne altri. Tutti per motivi diversi. Alcuni per la poetica, altri per l’estetica che li caratterizza, altri per i contenuti. Se necessario posso citare quelli che per me sono dei grandi maestri del passato ma giusto per rendere loro omaggio: Fellini, Cassavetes, gli autori della Nouvelle Vague, Antonioni, Rossellini e la lista potrebbe continuare. Nella mia formazione h tenuto molto però anche ad approfondire una sorta di “pedagogia del brutto”. Capire cosa non funziona per evitarlo ma lasciarmi sorprendere anche da quello. Credo molto nell’unità dei contrasti e avere solo modelli di perfezione è limitante. “il bello solo il bello è di una noia mortale”, dico spesso. A volte sbagliando strada si vedono molte più cose.
Da dove nasce l’idea per un cortometraggio? Dove trova gli spunti per realizzare le sue opere?
Dipende dall’urgenza di raccontare che mi muove in quel periodo. In genere faccio dei grandi contenitori di ricerca per tematiche che porto avanti nel tempo. Se la mia urgenza o il mio interesse rimangono vivi e la ricerca che faccio attraverso interviste e studi continua ad essere fertile, vuol dire che quella storia deve essere raccontata. Poi tutto questo viene contaminato dai sogni, dalla guida dell’inconscio (è il caso di dire che Jung mi viene in aiuto) le cui immagini attingono ovviamente dalla mia biografia e inizio a costruire una storia che possa valorizzare i contenuti che voglio veicolare. Amo da impazzire la fotografia quindi nella scrittura parto da un’ “immagine satura” che contiene tutte quelle domande che poi cercheranno una risposta nella storia a volte senza trovarla.
La cosa più facile e quella più difficile durante le riprese?
Per me il giorno prima e il giorno dopo la fine del set sono i momenti più delicati. Quando sto girando mi sento esattamente nel posto in cui dovrei essere, e tutto mi sembra semplice, leggero, ricco. Anche le difficoltà e i cambiamenti di programma che si possono incontrare girando, sono una fonte inesauribile che arricchisce il film.
Il giorno prima invece ci sono le aspettative, le incognite, la paura e la voglia di voler controllare tutto. Il giorno dopo c’è il down. È finita una parte essenziale e tiri le somme. Poi per fortuna arriva il montaggio e questa fase, spesso malinconica, finisce.
Corto è davvero più bello?
Sembrerò anacronistica e del tutto pazza, ma per me sì. È da quando ero al Centro Sperimentale che sono in giuria di festival di cinema internazionali. All’estero c’è una cultura e un sostegno per il genere cortometraggio che in Italia non c’è. O forse adesso non ci può essere a causa della crisi che stiamo attraversando. Se oggi mi chiedessero cosa vorrei fare da grande come regista suppongo che risponderei “corti d’autore”. Non li ritengo un biglietto da visita. Li considero delle opere d’arte a sé stanti con un linguaggio proprio, molto diverso dei lunghi, per scrittura, scelta delle inquadrature e dinamiche dei personaggi. Ho ovviamente dei soggetti per lunghi ma il giorno che deciderò di girare un lungo sarà perché quella storia deve essere raccontata attraverso un lungo e non altro.
Qual è il suo stato d’animo quando, per necessità di lunghezza della pellicola, deve rinunciare ad una scena ben fatta?
Fare cinema vuol dire trovare il compromesso ottimale tra quello che hai pensato, preparato e immaginato e quello che incontri girando. Spesso è più ricco di quello che avevi immaginato, basta saper valorizzare e integrare tutto quello che arriva.
Nell’ambito del cinema italiano, in che misura è possibile proporre delle nuove idee e quanto invece si deve venire a patti con i produttori e i gusti del grande pubblico?
Questa domanda necessiterebbe di una risposta molto lunga e articolata, soprattutto in un momento storico come questo in cui anche i produttori sono spaesati su cosa abbia senso e sia possibile produrre, quindi non posso avere la presunzione di rispondere in poche linee. Sarebbe troppo semplicistico. Spero solo che nel breve o nel lungo periodo torneremo ad avere il coraggio di rischiare e raccontare storie scomode ma necessarie e sperimentare anche dal punto di vista del linguaggio, qualunque sia il genere cinematografico che si sceglie. Altrimenti non ha senso fare il nostro lavoro.
Non può mancare una considerazione per l’oscar di Paolo Sorrentino…
Prezioso. Come il film. È uno degli autori italiani che stimo di più ed è per me di riferimento. Al di là delle critiche che si possono muovere, non ho apprezzato la polemica seguita alla vincita di questo premio tra cinefili e non. Credo che questa vittoria debba essere letta solo in segno positivo e che il nostro cinema, in un momento delicato come questo, ne avesse assolutamente bisogno.
Il David di Donatello è uno dei premi artistici nazionali più importanti. Cosa si prova ad essere inseriti tra i possibili vincitori della statuetta?
Ci si sente emozionati ma folli! Emozionati perché è il premio più importante per il cinema italiano e anche solo essere nella pagina dei cortometraggi in concorso fa un certo effetto. Folli perché il lavoro che ho presentato quest’anno è un piccolo lavoro di ricerca che ho girato quando ero a New York per frequentare la Nyfa. In realtà mi sta portando molto fortuna ma è un lavoro no budget (con alcuni colleghi della troupe americana lo chiamiamo “80 dollari di gloria”) che avrei voluto girare nelle giuste condizioni. D’altro canto se avessi temporeggiato probabilmente avrei abbandonato l’idea di sperimentare una cifra più surreale che invece mi sta trainando in molti dei lavori che sto facendo adesso.
Prossimi progetti? Il sogno nel cassetto?
I sogni sono solita tirarli tutti fuori dal cassetto. Credo sia una buona abitudine. Solo che il tempo mi ha insegnato a parlare solo di quelli che già hanno imparato a camminare da soli.