Regista per passione oltre che per formazione, Riccardo Bolo è al David con “Tanabata”, per la sezione corti. Conosciamolo insieme grazie a quest’intervista.
Cominciamo subito con la domanda di presentazione. Chi è …?
Mi chiamo Riccardo, ho 28 anni e sono un regista diplomato presso la Scuola d’arte cinematografica “Gian Maria Volonté” di Roma.
Tre domande da appassionato: qual è il suo regista preferito e il film/cortometraggio che non smetterebbe mai di rivedere? Perché?
Cito in ordine casuale: Godard, Vigo, Kitano, Allen, Bergman, Lynch…
E Chris Marker, a cui è dedicato “Tanabata”.
Ci sono dei film che ho visto decine di volte, spesso per ritrovare una sensazione o per scavare più a fondo, e tra questi c’è sicuramente “I 400 colpi”, che forse è il film che più di tutti mi ha fatto scegliere di provare a fare questo mestiere. Ogni volta che perdo le speranze penso ad Antoine Doinel. E spesso funziona.
Da dove nasce l’idea per un cortometraggio? Dove trova gli spunti per realizzare le sue opere?
Per “Tanabata” lo spunto è arrivato da Doralice Pezzola che ha scritto questo bellissimo racconto e me l’ha fatto leggere. Insieme lo abbiamo rielaborato fino a portarlo alla forma definitiva che ha assunto poi nel film.
Altre volte invece mi è capitato di partire da un’immagine presa nella realtà e dal conflitto tra quell’immagine ed un suono anche solo immaginato, che sia uno stralcio di conversazione, un brano musicale o il rumore di qualcosa che non c’è. Da quel conflitto nasce una sensazione che a volte può diventare un’idea.
La cosa più facile e quella più difficile durante le riprese?
La cosa più difficile è cercare di mantenere alta la concentrazione, nonostante il caos e i tempi morti.
Fatico invece ad individuare qualcosa di facile…
Corto è davvero più bello?
Il cortometraggio credo sia un bell’esercizio ed è forse l’unico modo per un giovane regista di mettersi alla prova. Non credo che la bellezza di un film dipenda dalla sua durata, certo è che a volte si vorrebbe avere un po’ più di tempo per andare a fondo sulle cose.
Qual è il suo stato d’animo quando, per necessità di lunghezza della pellicola, deve rinunciare ad una scena ben fatta?
Non mi è mai capitato di farlo per esigenze di lunghezza del film.
Mi è capitato invece di rinunciare a qualche inquadratura per questioni di ritmo interno alla scena e in quei casi avrei voluto morire.
Ma per fortuna esistono i montatori.
Nell’ambito del cinema italiano, in che misura è possibile proporre delle nuove idee e quanto invece si deve venire a patti con i produttori e i gusti del grande pubblico?
Non credo sia questione di idee vecchie o nuove, quanto di credere in quello che si fa e spesso chi produce e distribuisce in Italia crede solo al mercato. Il pubblico purtroppo vede quello che trova.
Non può mancare una considerazione per l’oscar di Paolo Sorrentino…
Si parla tanto negli ultimi tempi di come l’Oscar a Sorrentino possa contribuire a migliorare la situazione del cinema italiano. Sinceramente non credo che da qui in avanti smetteremo di produrre commedie mediocri con gli stessi quattro volti noti o che improvvisamente inizieremo a pagare le centinaia di persone che lavorano gratuitamente sui set nostrani con la scusa della “gavetta”, grazie ad un premio in più o in meno.
Il David di Donatello è uno dei premi artistici nazionali più importanti. Cosa si prova ad essere inseriti tra i possibili vincitori della statuetta?
Il fatto che un film di diploma di una scuola di cinema pubblica e gratuita possa concorrere ad un premio così importante mi rende orgoglioso e felice, soprattutto per le persone che con grande fatica ed entusiasmo hanno contribuito alla sua realizzazione.
Prossimi progetti? Il sogno nel cassetto?
Sto lavorando ad una serie web che spero di riuscire a girare a breve.
Il mio sogno è di riuscire a fare di questa passione un mestiere vero e proprio.