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Giovanni Aloi entra nella cinquina “A passo d’uomo”
L’annuncio ufficiale è arrivato nella conferenza stampa di ieri: Giovanni Aloi è nella cinquina. Il suo corto, intitolato “A passo d’uomo”, concorrere per la conquista della statuetta. Scopriamo impressioni, emozioni, e progetti futuri del regista grazie a questa intervista.
Cominciamo subito con la domanda di presentazione. Chi è …?
Ho quasi trent’anni, gli ultimi dieci passati tra Bologna e Parigi. Sono principalmente regista di documentari ma faccio anche film di finzione, come nel caso di “A passo d’uomo”. Cerco di lavorare sul confine tra i due approcci, alla ricerca di nuove soluzioni visive e narrative. Fin’ora ho diretto tre lungometraggi documentari (“La promessa”, “Lives” e “Pan play decadence”). Sono dei biopic, tutti realizzati con il collettivo internazionale theSPONKstudios.
2. Tre domande da appassionato: qual è il suo regista preferito e il film/cortometraggio che non smetterebbe mai di rivedere? Perché?
Il mio film preferito è “Fitzcarraldo”, di Herzog. È veramente un’opera epica: dalla trama alle modalità produttive al cast, passando per le musiche. In generale, comunque, amo questo autore per l’immensa varietà di luoghi e persone ritratti nelle sue opere. Poi mi piace moltissimo Ferreri, adoro la sua capacità di fare interagire personaggi ed ambientazioni evidenti: riesce a creare scene potentissime già solo disponendo corpi nello spazio. Un altro mito per me è Petri, che, senza un briciolo di moralismo, riesce a raccontare la società con occhio ad un tempo mimetico e stilizzato, combinando elementi di realismo ed invenzione pura.
3. Da dove nasce l’idea per un cortometraggio? Dove trova gli spunti per realizzare le sue opere?
Venendo dal documentario, per me è naturale guardare, per prima cosa, alla realtà. La società in cui viviamo è così piena di contraddizioni, più o meno evidenti, da essere un serbatoio infinito di storie ed atmosfere. Nel caso di “A passo d’uomo” ero rimasto molto colpito dalla notizia del suicidio di un padre separato, disoccupato ed oppresso dai debiti. La stessa sera ne parlai con lo sceneggiatore Nicolò Galbiati e da lì nacque l’idea iniziale.
4. La cosa più facile e quella più difficile durante le riprese?
La cosa più semplice è stata trovare la giusta sintonia tra i due attori protagonisti, Alessandro Castiglioni e Leonardo Rebaudengo. Fin dalla prima prova sembrava fossero veramente padre e figlio. La cosa più complessa tutto il resto: non puoi dare nulla per scontato quando fai un cortometraggio, soprattutto se hai un budget risibile, ed anche i minimi dettagli vanno considerati come fattori decisivi. Autoprodurti ti da la massima libertà, ma richiede anche la massima concentrazione in ogni momento.
5. Corto è davvero più bello?
Il cortometraggio è una forma cinematografica con la stessa dignità del lungometraggio. Non è né più bello, né meno bello: esistono film belli o brutti, a prescindere dalla loro durata. Detto questo il corto ha le sue specificità, le sue “regole”, che sottostanno giocoforza anche alla sua brevità. Di certo, in un’epoca in cui l’attenzione è sempre più frammentata, la forma breve è un modo intelligente per andare incontro allo spettatore.
6. Qual è il suo stato d’animo quando, per necessità di lunghezza della pellicola, deve rinunciare ad una scena ben fatta?
Faccio mia una famosa frase attribuita a Faulkner: “Kill your darlings!”. Intendeva dire che nella scrittura, ma anche nella regia, spesso è necessario avere la forza di eliminare le parti che ci piacciono di più. Anche quando si è obbligati a farlo per motivi esterni (produttivi, di durata, ecc), in molti casi, superato il dolore iniziale, ci si accorge dell’utilità, anzi della necessità, dei tagli in questione.
7. Nell’ambito del cinema italiano, in che misura è possibile proporre delle nuove idee e quanto invece si deve venire a patti con i produttori e i gusti del grande pubblico?
Il mio film è stato prodotto interamente dal collettivo di cui faccio parte, TheSPONKstudios, nella persona dello sceneggiatore e mia, in maniera indipendente. Devo dire, però, che abbiamo trovato, almeno nei partner istituzionali come la Genova Film Commision e la Cineteca di Bologna, grande voglia di collaborare. Per quanto riguarda il pubblico non credo sia tanto una questione di venire a patti con i suoi gusti, quanto di proporre delle storie oneste. Si tratta, a mio parere, di dire qualcosa che risuoni in chi ascolta, non per il gusto di compiacere l’audience, ma per empatia con essa.
8. Non può mancare una considerazione per l’oscar di Paolo Sorrentino…
L’Oscar è l’ennesima dimostrazione che noi italiani il cinema lo sappiamo fare e lo sappiamo fare bene. Mi auguro che l’onda lunga di questo premio coinvolga tutto il panorama nazionale e generi voglia di investire in questo ambito. Spero anche che serva a spronare gli autori di casa nostra a fare film dal respiro maggiormente internazionale, film universali se così vogliamo dire.
9. Il David di Donatello è uno dei premi artistici nazionali più importanti. Cosa si prova ad essere inseriti tra i possibili vincitori della statuetta?
Per un giovane regista come me è una gioia e un onore immenso già essere nella selezione. Chi lavora in questo mondo sa quanto sia difficile emergere o solo riuscire a mettere insieme il pranzo con la cena: riconoscimenti come questo ti aiutano a proseguire il cammino con quel pizzico di consapevolezza in più che può aiutare nei momenti di difficoltà.
10. Prossimi progetti? Il sogno nel cassetto?
Per il futuro abbiamo in cantiere, con il mio sceneggiatore, diversi progetti: un documentario su un famoso torero spagnolo e un film di finzione che tratta delle bonifiche d’amianto in Italia. Saranno filmi molto diversi tra di loro, ma che affrontiamo con lo stesso approccio: cercare una commistione tra realtà e immaginazione, generare cortocircuiti visivi tra ciò che siamo abituati a vedere, ciò che esiste davvero, e ciò che la nostra mente inventa.