“Beep” è il corto di Antonello Murgia, al David di Donatello per la sezione cortometraggi. Conosciamo meglio il regista, originario di Cagliari, in quest’intervista.
Cominciamo subito con la domanda di presentazione. Chi è …?
Mi chiamo Antonello Murgia, sono un regista e un musicista. Ho iniziato il mio cammino artistico studiando teatro, col preciso e profondo intento di voler sperimentare l’arte della recitazione in prima persona, per poter meglio comprendere e dirigere gli attori. Con il teatro ho ottenuto diversi Premi e riconoscimenti, tra i quali, una Menzione Speciale al “Premio Scenario / Premio Ustica”, il Primo Premio al “XVI Festival Internazionale, Teatro Pan” di Lugano, Premio del pubblico al Concorso “Ermo Colle” di Parma. Nel 2012 mi sono diplomato presso l’Accademia triennale “Istituto Cinematografico Michelangelo Antonioni”. “Beep”, è la mia Opera Prima in ambito cinematografico.
Tre domande da appassionato: qual è il suo regista preferito e il film/cortometraggio che non smetterebbe mai di rivedere? Perché?
Benché ve ne siano tanti, il regista che più mi sta a cuore è Federico Fellini. Il film che considero lo “zenit”, è “La strada”. Trovo che sia perfetto nella sua apparente semplicità, sotto tutti i punti di vista. È un’opera di genio che ha connotazioni universali: il connubio tra musica e immagini, la struttura drammaturgica, i dialoghi (…) È un film che risuona in me con una forza misteriosa di inesauribile stupore. Invece il corto che amo è “Father and Daughter”, regia di Michael Dudok de Wit. Trovare la speranza, escludendo qualsiasi banalità al di là di qualsiasi dottrina, è l’esperienza dell’eroe (eroina) di questo corto. La luce, la riconciliazione, il senso profondo dell’esistenza come la conquista di un agire mosso dall’amore.
Da dove nasce l’idea per un cortometraggio? Dove trova gli spunti per realizzare le sue opere?
Premetto che, per quanto la si cerchi, un’idea buona sia sempre un misterioso dono. Nasce da una crisi e dal desiderio profondo di condividere qualcosa di molto personale, un punto di vista, una presa di posizione. L’idea arriva all’improvviso come un’immagine fulminea che mi avvince. È come una creatura invisibile che vuole sopravvivere guarendo da qualcosa. Dal momento in cui decido di accoglierla, entra in azione la conoscenza e la tecnica; perché la struttura di una storia è qualcosa di insito nella natura stessa delle cose.
La cosa più facile e quella più difficile durante le riprese?
Quella più facile… non saprei. Quella più difficile è rimanere concentrati sul “mood” di ogni singola scena e inquadratura, specie nel mio caso, dove ho girato, per questioni di produzione, in modo non cronologico.
Corto è davvero più bello?
Non saprei. Credo che la risposta sia: dipende. Un cortometraggio può avere pari dignità, in alcuni casi, di un film. Un cortometraggio è spesso un piccolo film. Il cortometraggio “costringe” a delle scelte che danno, alle possibilità creative ed espressive, esiti inattesi.
Qual è il suo stato d’animo quando, per necessità di lunghezza della pellicola, deve rinunciare ad una scena ben fatta?
È capitato anche per il mio corto. Può dispiacermi se ci sono degli attori che non sono presenti nel resto del film. Per il resto, se il film non appare “mutilato”, accetto la rinuncia senza farne un dramma.
Nell’ambito del cinema italiano, in che misura è possibile proporre delle nuove idee e quanto invece si deve venire a patti con i produttori e i gusti del grande pubblico?
Mi sono appena affacciato in questo mondo complesso e variegato. Posso esprimere il mio parere, non di certo da esperto. Le nuove idee, se sono buone, vanno coltivate e difese; l’iter può essere lungo e faticoso. Lo è stato per tutti i registi della storia del cinema. Fare dei film tenendo conto anche del loro valore e potenziale “commerciale” non è qualcosa che deturpa il valore artistico. Al contrario, asservire le idee e snaturarle, per il solo scopo di fare qualcosa di commerciale è, per me, un operare vile e inutile. Credo fortemente che, per citare i grandi teorici della scrittura cinematografica, come Dara Marks, bisogna essere disposti a “pescare in acque più profonde”. La “grande bellezza” può arrivare a tutti.
Non può mancare una considerazione per l’oscar di Paolo Sorrentino…
L’Oscar è un premio importante, molto importante. Sono felice per lui e per il cinema italiano. Dà la speranza che un linguaggio azzardato e non ortodosso possa ancora essere accolto. Sono convinto che il film di Sorrentino sia un’opera d’arte. Mi ha destabilizzato e “diviso”; resta ancora un sentimento discordante; tanto vale accettare una “terza via” e impugnare la contraddizione. Il “nuovo” è capace di suscitare questo.
Il David di Donatello è uno dei premi artistici nazionali più importanti. Cosa si prova ad essere inseriti tra i possibili vincitori della statuetta?
Un sentimento di pura gratitudine, verso la vita e verso tutta la troupe, specie gli attori, gli assistenti alla regia, il direttore della fotografia, il montatore, il fonico, il produttore esecutivo, le scenografe… e tutti gli altri. Ci si sente onorati e fieri. Specie per me che partecipo con la mia prima opera. Raccolgo i frutti di dieci anni di dedizione e quelli di essermi formato in una buona scuola. La gioia è tanta. Che dire… Wow!
Prossimi progetti? Il sogno nel cassetto?
Il mio prossimo progetto, al quale sto lavorando già da un anno, è la realizzazione di un film tratto da un romanzo di una scrittrice sarda di grande successo. Prima, però, vorrei realizzare altri cortometraggi e coinvolgere il mio straordinario compagno di lavoro, nonché ottimo attore, Fabio Marceddu. Il sogno nel cassetto è quello di sentire di avere qualcosa di importante da tradurre in un film, e trovare le persone giuste per renderlo reale. Magari fuori dalle dinamiche dominanti. Una troupe può lavorare in grande armonia.